Valerio Varesi giornalista de La Repubblica e scrittore di romanzi polizieschi (suo è il Commissario Soneri, approdato anche in tv con Nebbie e delitti), tradotto e apprezzato all’estero (cinque dei suoi romanzi sono stati tradotti in inglese), è anche l’autore di romanzi storico-politici (Trilogia di una Repubblica) che indagano con sguardo lucido la nostra realtà contemporanea.
Alessandra Calanchi, professoressa di Letteratura e Cultura Anglo-Americana all’università di Urbino, ha intervistato Valerio Varesi per cercare di capire il suo ruolo di intellettuale nell’Italia di oggi anche in relazione alla scelta di scrivere noir.
Polizieschi, gialli e noir francesi
Valerio Varesi (classe ’59) è, citando Wikipedia, “un giornalista e scrittore italiano, autore di romanzi gialli e polizieschi”. Ti riconosci in questa descrizione?
Mi riconosco in parte, visto che io scrivo anche romanzi di altro genere come nel caso de Trilogia di una Repubblica. Però, è vero, sono anche uno scrittore di gialli. Gialli? Polizieschi? Noir? Le definizioni sono molteplici e mi lasciano tutto sommato abbastanza indifferente.
Credo di possedere una mia cifra narrativa che è forse quella più vicina al noir francese, vale a dire un romanzo che contiene un’indagine condotta da un poliziotto, ma su un fatto che ha grande rilevanza sociale e che può essere rappresentativo di un problema che riguarda tutti noi.
Insomma, un romanzo “impegnato”. Papa Bergoglio dice che un pastore deve puzzare del suo gregge. Io dico che uno scrittore deve sporcarsi le mani con la cronaca e la società che lo circonda.
Questo, nella grande letteratura avviene sempre, ma è un dovere pressante per il noir, genere che deve essere necessariamente inquietante e a suo modo eversivo anche rispetto alla cronaca di cui è una filiazione”.
Quanto è importante un editore e il rapporto che si crea con lui/lei?
Avere una stabilità editoriale e sentire la fiducia di chi ti pubblica è molto importante per un autore. Il rapporto con il redattore della casa editrice che ti segue, è simile a quello tra un paziente e il suo psicanalista. Dopo un po’ ti pare di confessare tutta la tua vita perché scrivere è un atto molto intimo. Si cava fuori da sé tanto come da una miniera e chi ti segue capisce com’è composta la tua intimità umana.
Quanto è il margine di autonomia dello scrittore?
L’autonomia è massima nel senso che scrivo ciò che mi pare, dal noir al romanzo storico, fino al racconto politico.
Quanto è cresciuto Soneri in questi anni, sia come uomo sia soprattutto come investigatore?
Soneri è cresciuto? Direi che si è raccontato. Penso che la mia scrittura sia cresciuta, mentre lui si è svelato ad ogni occasione. Il mio commissario non è un personaggio statico, bensì in itinere e come tale si rivela di volta in volta.
Valerio Varesi tra romanzi e social
I tuoi romanzi sono tradotti all’estero, hanno avuto premi, e sono stati trasposti sullo schermo televisivo. Cosa ci dici invece della rete? Quanta importanza hanno i social nella tua vita e nel tuo lavoro?
Moltissima oggi. La comunicazione si è sempre più spostata verso la rete e anche i giornali sono ormai più letti sul video che sulla carta. L’influenza dei media tradizionali (eccetto la televisione) si è affievolita fino quasi a scemare.
Oggi una recensione sulla carta non influenza più come vent’anni fa. Oltretutto, al di sotto dei 50 anni, nessuno compra più il giornale in edicola. Ecco perché i social e soprattutto i blog d’autore, diventano prevalenti nel trasmettere le informazioni sui libri.
Se c’è un passaparola, l’unica forma di pubblicità di cui può disporre un autore che non sia uno del circo mediatico televisivo, questo passa per la rete e i social. Dunque per un autore è essenziale essere presente in questo ambito.
Il tuo penultimo Soneri, La paura nell’anima (2018), è una caccia all’uomo ispirata alla vicenda di Igor, quindi molto legata a fatti di cronaca recenti. Cosa pensi dei rapporti fra realtà e rappresentazione mediatica? Quanto parte ha (o non ha) invece il giornalismo nel tuo lavoro (sia come documentazione e ricerca di informazioni sia come professione)?
La realtà è sempre più complessa della sua rappresentazione mediatica, specie quella televisiva. La cronaca non può entrare nelle numerose sfaccettature della vita e del suo prodursi. In particolare non può inoltrarsi nei meandri della mente, nella dimensione emozionale degli individui.
Deve fermarsi là dove quello che si dice o si scrive può essere provato. Per questo le sfugge un’enorme quantità di motivazioni dell’agire umano. La narrativa e la letteratura possono sopperire lavorando sulla finzione. Ma è una finzione spesso molto più vicina al reale della cronaca.
Si pensi alle stragi, per esempio. Abbiamo capito più leggendo i libri che i giornali. Il giornalismo è però, in quanto specchio, spesso impreciso, di quel che accade, una fonte inesauribile di spunti narrativi qualora i fatti siano la spia di problemi sociali. Il delitto spesso lo è.
Dell’ultimo romanzo, L’ora buca, 2020, vi è già una recensione apparsa su Girodivite http://www.girodivite.it/L-arancino-su-cui-camminiamo.html