Lo dico? Noir come l’inchiostro è uno di quei libri da leggere, da regalare, anche all’amico lettore che tutto legge e raramente si riesce a stupire con qualcosa (di stampato) che già non conosca.
È da consigliarne la lettura a chi fa comunicazione, media della carta stampata, della rete, dei sociale o della tv.
Perché Noir come inchiostro è un libro istruttivo, avvincente e intelligente. Ecco, l’ho detto.
Si tratta di una raccolta di saggi scritti da mani diverse che raccontano di fattacci di sangue e violenza avvenuti in luoghi ed epoche passate e di come furono strillati da giornalisti e reporter dell’epoca.
True crime, per dirla all’inglese ma anche fake news che, per come furono divulgati, ebbero una tale risonanza nell’immaginario collettivo da essere divenuti a loro volta soggetti di altre narrazioni, da ritrovare in nuovi libri e fumetti, da vedere nei cinema.
Storie di storie, cose da esperti qui raccontate nei dettagli al lettore che si scopre (almeno in parte) ignorante, non sapeva di non sapere, e pagina dopo pagina è catturato da quello che sta scoprendo.
Noir come l’inchiostro e il caso Marie Rogêt
Tanto per fare alcuni esempi, questo è il caso di Marie Rogêt la giovane protagonista di uno dei racconti più noti di Edgar Allan di Poe, sulla cui morte indaga il Cavaliere Dupin in The Mystery of Marie Rogêt, ispirato alla vita di Mary Cecilia Rogers.
Fanciulla in carne e ossa davvero morta ammazzata nella New York di metà Ottocento e di cui si parlò per oltre due anni – racconta Francesca Tontini in queste pagine – tanto fece clamore il ritrovamento del suo cadavere sulle rive dell’Hudson.
La morte come fuga
Ed è il caso anche di Beloved di Toni Morrison: Anya Pellegrin narra il fatto di cronaca che ispirò la scrittrice Premio Nobel per la Letteratura 1993, ovvero l’omicidio di una bambina di due anni da parte di sua madre, schiava fuggiasca e braccata, che con la morte voleva liberare la figlia dal suo stesso destino (quello obbligato per i neri nell’Ohio di metà Ottocento).
E poi Giuseppe Puntarello esplora l’opera di Billy Wilder, che forse non tutti sanno esser stato un reporter in Europa (dove nacque) ancor prima che regista e sceneggiatore negli Stati Uniti.
“La cronaca nera è la transustanziazione del noir. L’inchiostro il suo sangue” si legge nella prefazione firmata dai due curatori del volume Alessandra Calanchi e Tiziano Mancini.
Esiste insomma un legame ineludibile tra fattacci reali e fiction.
Più o meno da sempre. Non ne siete convinti? Lo sarete dopo aver letto le pagine qui firmate da Maurizio Ascari, che fa un excursus storico del giornalismo di nera, a partire dalla “street literature”, i fogli volanti che tra Cinque e Seicento si vendevano per strada con le notizie di crimini ed eventi eccezionali, veri o falsi che fossero, fino ai periodici illustrati dell’Ottocento, tra i quali News of the World, forse l’ultimo a chiudere i battenti (aperti nel 1843), nel 2011.
Noir come l’inchiostro e rosso come il sangue
Storie di editori e giornalisti ante litteram e di un pubblico atavicamente assetato di notizie sanguinose e sanguinarie, che faceva e fa ancora oggi molti numeri.
Da dove arriva questa sete? Vi invito a leggere il libro per scoprirlo, vi lascio nel mistero (parola non casuale).
Qui mi limito a sottolineare l’intelligenza del testo che, oltre a raccontare storie di storie in modo avvincente, fa fare un breve tuffo nel mare magnum dell’antropologia, quel tanto che basta per capire un po’ di più chi siamo.
Chioso infine spiegando perché suggerisco la lettura di Noir come inchiostro a chi fa comunicazione.
Sullo scaffale di chi fa comunicazione
Lo faccio partendo dalla convinzione che molti di noi comunicatori hanno dimenticato che le notizie di nera (e non solo!) oltre ad attirare l’attenzione sanno provocare risonanze enormi nella mente dei destinatari.
Ne era consapevole il governo fascista che infatti proibì ai giornali di scriverne, come racconta qui Sergio Agostinis.
E, sebbene per motivazioni del tutto diverse, sono felice di sapere che anche Alessandra Calanchi e Tiziano Mancini lo sono, dal momento che nella prefazione usano una parola oggi desueta in ogni dove: responsabilità.
Chi fa “narrazione” (intesa come Wittgenstein la intendeva, ovvero il racconto di ciò che accade nel mondo ché, se non fosse narrato, non accadrebbe), dicono, è responsabile di quello che dice.
In età moderna, responsabili si dovrebbero sentire storici e operatori di stampa e media.
“Responsabili in modo decisivo per la risonanza ottenuta da un fatto, per il clamore generato nell’opinione pubblica, per la capacità di permanenza nell’immaginario collettivo del villaggio globale”.
Noir come l’inchiostro – a cura di Alessandra Calanchi e Tiziano Mancini – Aras Edizioni
Da non dimenticare, mai.